L’accumulazione è una necessità umana. Il bisogno che spinge l’uomo a radunare elementi per goderne il possesso, per sentirli suoi, è certo molto antico. Il risultato di questo tipo di operazioni è causato dalla presenza di due fattori, il contenuto e il contenitore. Il primo può influenzare direttamente la natura dell’agglomerato perché in grado di definire un insieme grazie alle caratteristiche comuni delle sue componenti. Ma non sempre funziona così, non sempre questo basta per parlare di accumulazione. Spesso è il contenitore a determinare l’archivio. Biblioteche, musei, server, stanze e scatole sono i suoi possibili contenitori, nonché i suoi limiti. Sono molti gli artisti che si sono concentrati sul limite dell’archivio nel tentativo di esplorarne gli orizzonti. In una interpretazione concettuale dell’accumulazione si può dire che questa non abbia limiti, anche se sappiamo bene che questo è in un certo qual modo vero anche per gli equivalenti fisici. Artisti come Roman Opałka e Hanne Darboven con il loro lavoro hanno dimostrato la volontà di confrontarsi con un limite potenzialmente inesistente, quello dei numeri. Ma prima di prendere in esame quella che è definita come l’accumulazione artistica è necessario interrogarsi su cosa sta alla base dell’archivio, quali dinamiche determinano la sua creazione e fruizione. La volontà di conservare in maniera 9 permanente documenti pubblici (la res pubblica) è antica quanto la produzione di quegli stessi documenti, ed è intrinsecamente legata all’esercizio del potere legislativo. Chi è in grado di dettare legge decide a chi è concesso “parlare” a futura memoria, e a chi invece è negato tale diritto. Il legame tra archivio e potere attraversa tutta la storia del mondo, dalla Grecia e la Roma della damnatio memoriæ—pena giuridica consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia fisica—alla distopia orwelliana di 1984, dove la Storia viene costantemente modificata nelle sue fonti, come ben sintetizza uno degli slogan del Partito: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Questa tematica è stata introdotta per la prima volta da Jacques Derrida, che analizza la parola “archivio” dal punto di vista semantico ed etimologico, dalla forma originale greca ρχεῖον, che è “initially a house, a domicile, an adress, the residence of the superior magistrates, the archons, those who commanded. The citizens who thus held and signified political power were considered to possess the right to make or to represent the law. On account of their publicly recognized authority, it is at their home, in that place which is their house […] that official documents are filed. The archons are first of all the documents’ guardians”. Quindi la casa degli arconti è sia il posto ideale dove si esercita la legge, sia il posto fisico dove viene registrata la storia, il suo archivio. Questa sorta di domiciliazione dell’archivio come spazio fisico è, secondo Foucault, condizione necessaria per la legittimazione dei giudizi in esso contenuti. Derrida, svolgendo ancora un’altra analisi etimologica, chiama questa funzione consignation, la quale “do not only mean, in the ordinary sense of the word, the act of assigning residence or of entrusting so as to put into reserve (to consign, to deposit), in a place and on a substrate, but here the act of con–signing through gathering together signs”. Il principio di definire un insieme comune di segni è importante per due ordini di fattori:
Occorre però effettuare una distinzione tra ciò che viene definito collezione (ovvero un accumulo di materiali), e ciò che è invece archivio (un’organizzazione di materiali). Questa distinzione è stata fondamentale non solo dal punto di vista delle scienze archivistiche, ma anche nelle diverse pratiche artistiche che utilizzano l’archivio come mezzo o forma finale. Se è vero infatti che Benjamin, indicando lo storico Edward Fuchs come il collezionista ideale, pone l’accento sul plusvalore fornito dal punto di vista del possessore della collezione, è nell’oggettività dell’archivio che si inseriscono motivi di critica e connessioni tra una data cultura e il suo patrimonio “conservato”, come dimostrano differenti operazioni artistiche influenzate da ciò che il critico Hal Foster definisce un aprioristico impulso archivista, comune fin da sempre nel mondo dell’arte ed esploso negli anni ’60. È interessante notare come, nel sistema delle arti, il concetto di collezione sia precedente a quello di archivio, e come queste due forme di accumulazione siano fortemente legate al livello culturale e tecnologico dello zeitgeist che le produce, sotto forma di dispositivi. Questo termine è mediato dall’uso che ne fanno Foucault e successivamente Agamben:
il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati.
Esistono differenti dispositivi fra i quali si può individuare un percorso che giunge alla contemporaneità, prendendo in considerazione le seguenti tappe:
Questo aspetto monumentale è stato analizzato anche da Foucault, citato da Enwezor: “in our time, history is that which transforms documents into monuments”. Ma ciò che emerge con costanza, in tutti gli esempi presi in considerazione, è l’attenzione riservata alla presenza fisica, alla presentazione dei singoli items, a conferma della teoria psicanalitica derridiana. Non è quindi un caso se la rappresentazione dell’archivio nell’arte contemporanea mantiene “its traditional, physical form, which is undoubtedly still the one we’re most familiar with, even after a few decades of computers and databases”. Ma se da un lato l’archivio influenza l’arte contemporanea, dall’altro sono le stesse pratiche artistiche, come si vedrà, ad avere un grosso impatto sui meccanismi di archiviazione. Nell’ultimo secolo il mondo ha però assistito ad una moltitudine di casi nei quali l’artista fa uso dell’accumulazione per fini deliberatamente artistici. La giustapposizione di elementi altro non è per lui che una selezione di oggetti con un significato ben preciso che va oltre i consueti criteri di catalogazione. Semplicemente non è questo che sta cercando. Cos’é quindi che gli dà l’impulso di collezionare? Ed è quindi possibile individuare un limite tra la pratica artistica e quella che prettamente artistica non è?
However natural collecting may at first seem, at second glance it is also fraught with contradictions engendered by ambivalence and paradox. And it is precisely these contradictions which engage artistic practice.
Così il curatore tedesco Matthias Winzen parla della motivazione che spingerebbe il mondo dell’arte verso l’accumulazione. L’artista è secondo lui chiamato a indagarne le contraddizioni per poter lavorare sui paradossi, e quindi sui limiti, dell’archivio artistico. Mentre le collezioni convenzionali compiono operazioni sui soggetti che le compongono in visione di un ipotetico completamento, quelle artistiche non hanno una fine certa, e neanche un obiettivo. Quello della collezione completa non è un problema che interessa gli artisti. Essi iniziano a collezionare come chiunque altro ma arrivano poi a concentrarsi sulla natura paradossale dell’accumulazione. Questo conferisce loro una possibilità che pochi altri hanno. Comprendere a fondo la natura dell’archivio fino a poterlo usare come strumento artistico. I paradossi che Winzen cita sono tre:
Sono differenti strategie artistiche che vengono adottate in relazione ai tre paradossi, ma lo sviluppo di queste è dovuto anche ai "contenitori" degli archivi. Questi costituiscono pertanto una classificazione trasversale del tema. È ancora Matthias Winzen che nel suo saggio Collecting—so normal, so paradoxical indica quelle che secondo lui sono le quattro metafore spaziali dell’archiviazione:
Secondo Ingrid Schaffner, le stesse vite degli artisti possono essere considerate archivi. Ogni nota, ricetta, schizzo scartato può diventare un giorno tremendamente significativo. È per questo che molti hanno deciso di concentrarsi su elementi apparentemente negletti e senza valore. Si muovono nel limite tra ciò che è irrilevante e ciò che ha un immenso valore. Ovviamente questo criterio è stabilito dall’artista, sarà infatti ciò che egli seleziona a diventare eccezionale in una collezione. Qualunque cosa è per cui eleggibile dall’occhio selettore dell’artista. C’è perfino qualcuno che riesce a collezionare senza distruggere il soggetto. Marcel Duchamp con Parisian Air (1919) ci dimostra come sia possibile operare sui limiti del paradosso sfruttando altri tipi di controsensi. Ed ecco come la collezione, da utopistica operazione carica di ambizione, diventa un’occasione per l’artista per indagare i suoi stessi limiti. L’accumulazione si rivela così uno spazio fertile per la sperimentazione artistica, ricco, tanto di possibilità quanto di contraddizioni.
Notes
George Orwell, 1984 (Milano: Mondadori, 2000)
Jacques Derrida, Archive fever: a Freudian impression (Chicago: University of Chicago Press, 1998)
Okwui Enwezor, Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art (Göttingen: Steidl, 2009)
Michel Foucault, L’archeologia del sapere (Milano: Rizzoli BUR, 1999)
Jacques Derrida, op. cit.
Michel Foucault, op. cit.
Anna Titus, “The influence of contemporary art on the modern notion of archive, in Resistance and normalization”, Digithum n.15, 2013
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Milano: Einaudi, 2000)
Hal Foster, “An Archival Impulse”, in October n.110, 2004
Michel Foucault, Dits et écrits, in Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? (Roma: Edizioni Nottetempo, 2006)
Thomas Richards, The imperial archive: Knowledge and the Fantasy of Empire (Londra e New York: Verso, 1993)
Okwui Enwezor, op. cit.
Alessandro Ludovico, Post–digital Print — The Mutation Of Publishing Since 1894 (Ram Publications, 2013)
Matthias Winzen, “Collecting—so normal, so paradoxical”, in Ingrid Schaffner and Matthias Winzen (eds.) Deep Storage: Collecting, Storing and Archiving in Art (New York: Prestel, 1998)
Niklas Luhmann, Soziologische Aufklärung 5: Konstruktivistische Perspektiven (Opladen: Westdt. Verlag, 1990)
ibidem
ibidem
Christian Boltanski, “Doris von Drahten, The clown as a bad preacher”, in Kai-Uwe Hemken (a cura di) Gedachtnisbilder. Vergessen und Erinnern in der Gegenwartskunst (Lipsia: Reclam Verlag, 1996)
Matthias Winzen, op. cit.
Susan Stewart, “Wunderkammer — As after, as before”, in Ingrid Schaffner and Matthias Winzen (eds.) Deep Storage: Collecting, Storing and Archiving in Art (New York: Prestel, 1998)
ibidem
Ingrid Schaffner, “Digging back to the 'Deep Storage'”, in Deep Storage: Collecting, Storing and Archiving in Art (New York: Prestel, 1998)