Strumenti e dinamiche dell’accumulazione
Athanor №2
— Accumulazione
March 2014
with Valerio Nicoletti

L’accumulazione è una necessità umana. Il bisogno che spinge l’uomo a radunare elementi per goderne il possesso, per sentirli suoi, è certo molto antico. Il risultato di questo tipo di operazioni è causato dalla presenza di due fattori, il contenuto e il contenitore. Il primo può influenzare direttamente la natura dell’agglomerato perché in grado di definire un insieme grazie alle caratteristiche comuni delle sue componenti. Ma non sempre funziona così, non sempre questo basta per parlare di accumulazione. Spesso è il contenitore a determinare l’archivio. Biblioteche, musei, server, stanze e scatole sono i suoi possibili contenitori, nonché i suoi limiti. Sono molti gli artisti che si sono concentrati sul limite dell’archivio nel tentativo di esplorarne gli orizzonti. In una interpretazione concettuale dell’accumulazione si può dire che questa non abbia limiti, anche se sappiamo bene che questo è in un certo qual modo vero anche per gli equivalenti fisici. Artisti come Roman Opałka e Hanne Darboven con il loro lavoro hanno dimostrato la volontà di confrontarsi con un limite potenzialmente inesistente, quello dei numeri. Ma prima di prendere in esame quella che è definita come l’accumulazione artistica è necessario interrogarsi su cosa sta alla base dell’archivio, quali dinamiche determinano la sua creazione e fruizione. La volontà di conservare in maniera 9 permanente documenti pubblici (la res pubblica) è antica quanto la produzione di quegli stessi documenti, ed è intrinsecamente legata all’esercizio del potere legislativo. Chi è in grado di dettare legge decide a chi è concesso “parlare” a futura memoria, e a chi invece è negato tale diritto. Il legame tra archivio e potere attraversa tutta la storia del mondo, dalla Grecia e la Roma della damnatio memoriæ—pena giuridica consistente nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia fisica—alla distopia orwelliana di 1984, dove la Storia viene costantemente modificata nelle sue fonti, come ben sintetizza uno degli slogan del Partito: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Questa tematica è stata introdotta per la prima volta da Jacques Derrida, che analizza la parola “archivio” dal punto di vista semantico ed etimologico, dalla forma originale greca ρχεῖον, che è “initially a house, a domicile, an adress, the residence of the superior magistrates, the archons, those who commanded. The citizens who thus held and signified political power were considered to possess the right to make or to represent the law. On account of their publicly recognized authority, it is at their home, in that place which is their house […] that official documents are filed. The archons are first of all the documents’ guardians”. Quindi la casa degli arconti è sia il posto ideale dove si esercita la legge, sia il posto fisico dove viene registrata la storia, il suo archivio. Questa sorta di domiciliazione dell’archivio come spazio fisico è, secondo Foucault, condizione necessaria per la legittimazione dei giudizi in esso contenuti. Derrida, svolgendo ancora un’altra analisi etimologica, chiama questa funzione consignation, la quale “do not only mean, in the ordinary sense of the word, the act of assigning residence or of entrusting so as to put into reserve (to consign, to deposit), in a place and on a substrate, but here the act of con–signing through gathering together signs”. Il principio di definire un insieme comune di segni è importante per due ordini di fattori:

  1. per l’impossibilità di descrivere interamente un archivio, che non si presenta mai nella sua forma completa ma “emerge in frammenti, regioni, livelli”;
  2. per la necessità di svincolarsi dal valore del singolo oggetto archiviato e definire il valore della collezione.

Occorre però effettuare una distinzione tra ciò che viene definito collezione (ovvero un accumulo di materiali), e ciò che è invece archivio (un’organizzazione di materiali). Questa distinzione è stata fondamentale non solo dal punto di vista delle scienze archivistiche, ma anche nelle diverse pratiche artistiche che utilizzano l’archivio come mezzo o forma finale. Se è vero infatti che Benjamin, indicando lo storico Edward Fuchs come il collezionista ideale, pone l’accento sul plusvalore fornito dal punto di vista del possessore della collezione, è nell’oggettività dell’archivio che si inseriscono motivi di critica e connessioni tra una data cultura e il suo patrimonio “conservato”, come dimostrano differenti operazioni artistiche influenzate da ciò che il critico Hal Foster definisce un aprioristico impulso archivista, comune fin da sempre nel mondo dell’arte ed esploso negli anni ’60. È interessante notare come, nel sistema delle arti, il concetto di collezione sia precedente a quello di archivio, e come queste due forme di accumulazione siano fortemente legate al livello culturale e tecnologico dello zeitgeist che le produce, sotto forma di dispositivi. Questo termine è mediato dall’uso che ne fanno Foucault e successivamente Agamben:

il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati.

Esistono differenti dispositivi fra i quali si può individuare un percorso che giunge alla contemporaneità, prendendo in considerazione le seguenti tappe:

  1. il reliquiario, il cui sviluppo e acme si ha nel Medioevo, che consente la doppia funzione di conservare ed esporre—ma molto spesso quest’ultima di gran lunga più importante, almeno dal punto di vista sociologico—ad un pubblico ampio e non specializzato;
  2. lo studiolo rinascimentale, in cui si conservano collezioni di rarità artistiche e scientifiche ad uso esclusivo del nobile proprietario e degli ospiti “da impressionare”, poiché l’esposizione è celata da dipinti e pannelli lignei (i due esempi noti sono quello di Francesco I De’ Medici nel Palazzo Vecchio di Firenze e quello di Federico Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino);
  3. le collezioni seicentesche — conosciute in Italia come Naturalia et Mirabilia e in Germania come Wunderkammer — in cui alla volontà di stupire il ristretto pubblico si unisce un primordiale impulso di catalogazione oggettiva, frutto del clima scientista post–gutenberghiano e pre–illuminista;
  4. il museo ottocentesco, universale per pubblico e intenti, nel quale esplode il criterio archivistico unito ad una solenne monumentalità (si pensi alle architetture di Schinkel o al British Museum di Smirke), conseguenza dell’interpretazione borghese della cultura e dello spirito vittoriano, come suggerito da Thomas Richards nel suo saggio.

Questo aspetto monumentale è stato analizzato anche da Foucault, citato da Enwezor: “in our time, history is that which transforms documents into monuments”. Ma ciò che emerge con costanza, in tutti gli esempi presi in considerazione, è l’attenzione riservata alla presenza fisica, alla presentazione dei singoli items, a conferma della teoria psicanalitica derridiana. Non è quindi un caso se la rappresentazione dell’archivio nell’arte contemporanea mantiene “its traditional, physical form, which is undoubtedly still the one we’re most familiar with, even after a few decades of computers and databases”. Ma se da un lato l’archivio influenza l’arte contemporanea, dall’altro sono le stesse pratiche artistiche, come si vedrà, ad avere un grosso impatto sui meccanismi di archiviazione. Nell’ultimo secolo il mondo ha però assistito ad una moltitudine di casi nei quali l’artista fa uso dell’accumulazione per fini deliberatamente artistici. La giustapposizione di elementi altro non è per lui che una selezione di oggetti con un significato ben preciso che va oltre i consueti criteri di catalogazione. Semplicemente non è questo che sta cercando. Cos’é quindi che gli dà l’impulso di collezionare? Ed è quindi possibile individuare un limite tra la pratica artistica e quella che prettamente artistica non è?

However natural collecting may at first seem, at second glance it is also fraught with contradictions engendered by ambivalence and paradox. And it is precisely these contradictions which engage artistic practice.

Così il curatore tedesco Matthias Winzen parla della motivazione che spingerebbe il mondo dell’arte verso l’accumulazione. L’artista è secondo lui chiamato a indagarne le contraddizioni per poter lavorare sui paradossi, e quindi sui limiti, dell’archivio artistico. Mentre le collezioni convenzionali compiono operazioni sui soggetti che le compongono in visione di un ipotetico completamento, quelle artistiche non hanno una fine certa, e neanche un obiettivo. Quello della collezione completa non è un problema che interessa gli artisti. Essi iniziano a collezionare come chiunque altro ma arrivano poi a concentrarsi sulla natura paradossale dell’accumulazione. Questo conferisce loro una possibilità che pochi altri hanno. Comprendere a fondo la natura dell’archivio fino a poterlo usare come strumento artistico. I paradossi che Winzen cita sono tre:

  1. La paura della perdita dell’oggetto rende l’archiviazione una manifestazione del timore nei confronti dell’imprevedibilità del futuro. Secondo Theodor W. Adorno la reificazione compulsiva di ciò che è eccezionale equivale al fallimento della volontà di proteggerlo: “the will to possess reflects time as fear of loss, of the irretrievable nature of everything. What is, is experienced in relations on its potential non-existence”. A questo si aggiunge la volontà di calcolare il futuro per controllare i rischi, ispirata dalla Teoria dei Sistemi, e la questione si fa più complicata. Tanto che secondo Luhmann “attempts to reduce a risk are themselves risky”.
  2. In quella che Winzen chiama la diversità similare, la collezione è vista come il risultato di un’operazione che introduce ordine, significato, coerenza, confini in contrapposizione a ciò che è confuso e senza chiari limiti. Come se collezionando si salvasse un elemento dalla sua potenziale scomparsa fornendolo di una serie di caratteristiche che prima non aveva. Allo stesso tempo però, le peculiarità per le quali è stato incluso nella collezione vengono dissolte dal processo che lo rende collezionabile. L’oggetto unico perde quindi la sua unicità diventando qualcosa tra tante altre.
  3. Il paradosso della distruzione protettiva è strettamente connesso a quello della diversità similare. Il trapianto di un oggetto concreto in una collezione equivale alla sua decaduta parziale o completa in favore della sua documentabilità. Come dice il direttore del Römisch-Germanisches Museum di Colonia, Hansgerd Hellenkemper: “it’s the dilemma of city archeology that we document loss. Excavations are scientifically controlled destruction”. La creazione dei musei quindi completa la perdita di significato degli oggetti che contengono in termini di realtà quotidiana. La decontestualizzazione di per sé costituisce un impoverimento di questi. Per questo i musei ricordano a Boltanski i cimiteri. Secondo lui è il passaggio da soggetto a oggetto che fa perdere l’essenza e il significato alle cose. Matthias Winzen e Susan Stewart, nei rispettivi saggi contenuti nel libro Deep Storage riportano due osservazioni che lette assieme spiegano meglio di qualunque altra cosa l’ambiente nel quale gli artisti fanno il loro ingresso lavorando con l’archivio. There is no archive in which nothing gets lostma the work of the archive is the work of remembering.

Sono differenti strategie artistiche che vengono adottate in relazione ai tre paradossi, ma lo sviluppo di queste è dovuto anche ai "contenitori" degli archivi. Questi costituiscono pertanto una classificazione trasversale del tema. È ancora Matthias Winzen che nel suo saggio Collecting—so normal, so paradoxical indica quelle che secondo lui sono le quattro metafore spaziali dell’archiviazione:

  1. La Collezione/Archivio ci rimanda a operazioni che riguardano l’accostamento, e quindi la documentazione, di oggetti con fini artistici. Con la collezione si accumulano elementi che diventano testimonianza di un processo di associazione che li vede protagonisti. Nel caso di Douglas Blau, esso consiste nella scelta di un tema e nella successiva associazione di immagini ad esso relative, provenienti da differenti epoche e ambiti come fotografie, dipinti, fotogrammi di film. Nella sua installazione The Naturalist Gathers, Blau dimostra un approccio simile a quello di Aby Warburg e si svela come un’opera di documentazione artistica curatoriale. Stefan Hoderlein ha collezionato i suoi vestiti dal 1976, li ha fotografati e ha realizzato un’installazione nella quale vengono presentati come delle slide. Si tratta della documentazione di una parte della sua vita e costituisce un “diario” del suo vestiario. Anche Claes Oldenburg ha collezionato centinaia di oggetti quotidiani insistendo, dal canto suo, sul rapporto tra arte e vita quotidiana che ha dato vita poi al famoso The Store nel 1961.
  2. Lo Studio è uno spazio metaforico di lavoro e trasformazione. L’impulso artistico a collezionare oggetti non è completamente separato dalle attività artistiche che hanno luogo nello studio. Esso può essere quindi considerato un deposito in due sensi: è il posto dove schizzi o bozze possono diventare oggetti artistici, ma è anche il posto dove vengono depositati gli scarti che non sono destinati a diventare arte. Wilhelm Mundt si è concentrato su questo tipo di coesistenza smettendo, sul finire degli anni ’80, di gettare la spazzatura del proprio studio e trasformandola in arte. Non è certo stato il primo a usare scarti per produrre arte, ma è sicuramente uno dei primi ad attingere da un deposito strettamente connesso alla sua precedente produzione artistica. Richard Artschwager ha trasformato le sue casse di legno per contenere opere d’arte in sculture. Nel suo caso non vengono usati scarti ma semplicemente oggetti non comunemente dedicati alla pratica artistica che l’artista aveva nel suo “magazzino”. La trasformazione fisica e simbolica dell’oggetto può dunque diventare parte di un processo di accumulazione.
  3. La Scatola è un reame semantico impiegato da moltissimi artisti. Tra questi sicuramente Joseph Cornell è uno di quelli che più sono legati al concetto di “scatola”. Le sue Shadow Boxes consistevano nell’assemblaggio in scatole di legno di oggetti da lui collezionati, provenienti dagli angoli più disparati di New York. La Boîte en-valise di Marcel Duchamp vede invece impiegata una valigia di pelle per contenere copie in miniatura di opere d’arte dell’artista stesso. La valigia è concepita come una sorta di album dei lavori che Duchamp ha realizzato fino a quel momento a partire dal 1913. Altri casi simili sono le Time Capsules e la mostra Raid the Icebox di Andy Warhol, i Combines di Robert Rauschenberg e lavori di artisti come Christian Boltanski, Joseph Beuys e Thomas Virnich. Il concetto che sta alla base di questa metafora spaziale è la relazione che si viene a creare tra gli oggetti collezionati, ma soprattutto quella tra questi e il loro contenitore, responsabile della loro dematerializzazione.
  4. In ultimo il Data Space si riferisce al deposito digitale ed elettromagnetico di dati. Esso si sviluppa sulla contrapposizione di fisicità e virtualità degli elementi che ne fanno parte. Il fatto che questo tipo di archivio non sia concreto ha permesso ad artisti come Nam June Paik, George Legrady, Lynn Hershman e Vera Frenkel di confrontare temi quali, il corpo, lo spazio, la traccia, il documento con l’irrealtà della memoria. Loro non vedono più le macchine con altissime capacità di memoria, come oggetti che si oppongono alla natura del corpo umano. L’espansione della memoria umana si estende in uno spazio digitale che ha in un certo modo la funzione di una protesi.

Secondo Ingrid Schaffner, le stesse vite degli artisti possono essere considerate archivi. Ogni nota, ricetta, schizzo scartato può diventare un giorno tremendamente significativo. È per questo che molti hanno deciso di concentrarsi su elementi apparentemente negletti e senza valore. Si muovono nel limite tra ciò che è irrilevante e ciò che ha un immenso valore. Ovviamente questo criterio è stabilito dall’artista, sarà infatti ciò che egli seleziona a diventare eccezionale in una collezione. Qualunque cosa è per cui eleggibile dall’occhio selettore dell’artista. C’è perfino qualcuno che riesce a collezionare senza distruggere il soggetto. Marcel Duchamp con Parisian Air (1919) ci dimostra come sia possibile operare sui limiti del paradosso sfruttando altri tipi di controsensi. Ed ecco come la collezione, da utopistica operazione carica di ambizione, diventa un’occasione per l’artista per indagare i suoi stessi limiti. L’accumulazione si rivela così uno spazio fertile per la sperimentazione artistica, ricco, tanto di possibilità quanto di contraddizioni.


Notes


  1. George Orwell, 1984 (Milano: Mondadori, 2000)

  2. Jacques Derrida, Archive fever: a Freudian impression (Chicago: University of Chicago Press, 1998)

  3. Okwui Enwezor, Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art (Göttingen: Steidl, 2009)

  4. Michel Foucault, L’archeologia del sapere (Milano: Rizzoli BUR, 1999)

  5. Jacques Derrida, op. cit.

  6. Michel Foucault, op. cit.

  7. Anna Titus, “The influence of contemporary art on the modern notion of archive, in Resistance and normalization”, Digithum n.15, 2013

  8. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Milano: Einaudi, 2000)

  9. Hal Foster, “An Archival Impulse”, in October n.110, 2004

  10. Michel Foucault, Dits et écrits, in Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo? (Roma: Edizioni Nottetempo, 2006)

  11. Thomas Richards, The imperial archive: Knowledge and the Fantasy of Empire (Londra e New York: Verso, 1993)

  12. Okwui Enwezor, op. cit.

  13. Alessandro Ludovico, Post–digital Print — The Mutation Of Publishing Since 1894 (Ram Publications, 2013)

  14. Matthias Winzen, “Collecting—so normal, so paradoxical”, in Ingrid Schaffner and Matthias Winzen (eds.) Deep Storage: Collecting, Storing and Archiving in Art (New York: Prestel, 1998)

  15. Niklas Luhmann, Soziologische Aufklärung 5: Konstruktivistische Perspektiven (Opladen: Westdt. Verlag, 1990)

  16. ibidem

  17. ibidem

  18. Christian Boltanski, “Doris von Drahten, The clown as a bad preacher”, in Kai-Uwe Hemken (a cura di) Gedachtnisbilder. Vergessen und Erinnern in der Gegenwartskunst (Lipsia: Reclam Verlag, 1996)

  19. Matthias Winzen, op. cit.

  20. Susan Stewart, “Wunderkammer — As after, as before”, in Ingrid Schaffner and Matthias Winzen (eds.) Deep Storage: Collecting, Storing and Archiving in Art (New York: Prestel, 1998)

  21. ibidem

  22. Ingrid Schaffner, “Digging back to the 'Deep Storage'”, in Deep Storage: Collecting, Storing and Archiving in Art (New York: Prestel, 1998)